Via un Ratzinger per farne un altro
intervista a Daniele Menozzi a cura di Luca Kocci
in “il manifesto” del 23 febbraio 2013
Uscirà lunedì 25 il fascicolo speciale su Ratzinger e il prossimo Conclave (Punto... E a
capo?) realizzato dall’agenzia di informazioni Adista in cui è pubblicata anche l’intervista
integrale a Daniele Menozzi che anticipiamo sul manifesto di oggi. Nel fascicolo si
ricostruiscono le tappe fondamentali del pontificato di papa Benedetto XVI, caratterizzato
da scivoloni, arretramenti pre- conciliari e “corvi”, ma anche i suoi 25 anni trascorsi alla
guida della Congregazione per la dottrina della fede, l’ex sant’Uffizio, da dove l’allora
card. Ratzinger, braccio destro di Wojtyla, affossò la teologia della liberazione e tutte le voci
autonome della Chiesa cattolica. E poi una serie di analisi fra gli altri di Marcelo Barros,
Leonardo Boff, José Marìa Castillo, Ortensio da Spinetoli, Beniamin Forcano, Ivone
Gebara, Mary Hunt, Felice Scalia e Andrés Torres Queiruga.
Atto «inusuale», ma definirlo «rivoluzionario» è «prematuro», perché secoli di assolutismo e
centralismo romano, di sacralizzazione della figura del pontefice non si cancellano con una
rinuncia. Ribalta l’apologetica su papa Ratzinger e sulle sue dimissioni Daniele Menozzi, docente di
storia contemporanea alla Normale di Pisa e specialista del papato in età moderna e contemporanea,
che fra le righe suggerisce anche un’altra ipotesi: che Ratzinger si sia dimesso anche per meglio
orientare la nomina del suo successore.
Professor Menozzi, quali valutazioni è possibile fare sulla decisione di Ratzinger di lasciare il
pontificato?
Mi pare che si possano formulare due ipotesi. O la rinuncia è motivata dalla constatazione che la
linea di governo messa in opera in questi otto anni si è rivelata inadeguata ad affrontare e risolvere i
problemi della Chiesa odierna, e dunque Ratzinger ha ritenuto di passare la mano per giungere
all’individuazione di un papa capace di esprimere una diversa prospettiva di azione. Oppure la
rinuncia trova ragione nella convinzione che quella linea, di per sé valida, non può essere
efficacemente realizzata da un papa anziano, debole e con forze calanti, sicché Ratzinger ha pensato
che occorra trovare un successore in grado di portarla a compimento con l’energia, la decisione e la
determinazione – e forse anche la rigidità – giudicate necessarie. Personalmente ritengo che
discorsi, modalità, tempi dell’atto compiuto da Benedetto XVI rendano più probabile questa
seconda ipotesi.
E che sia stato schiacciato da quello stesso potere che si è andato concentrando nella persona
del pontefice e nella Curia romana, un potere che fagocita se stesso?
Non credo che l’accentramento del potere di governo nelle mani del papa sia stato determinante
nella rinuncia: non riesco a vedere un papa che, dotato di troppo potere, non è in grado di gestirlo.
Mi pare piuttosto che Ratzinger si sia reso conto dell’impossibilità di governare la conflittualità
interna alla Curia. È vero che scontri interni alla sede romana sono sempre esistiti nella storia del
papato e che le dimensioni elefantiache assunte oggi dalla Curia li hanno ingigantiti. Mi pare
tuttavia che la linea del papato li abbia esasperati, finendo per renderli ingovernabili. Un esempio è
fornito dal tentativo di recuperare i tradizionalisti: è evidente che i suoi ripetuti fallimenti hanno
indotto i settori curiali contrari all’accettazione delle condizioni via via poste dai lefebvriani per
continuare il dialogo con Roma, a cercare posizioni di maggior potere da cui arginare la temuta
deriva tradizionalista del pontificato. Ma più in generale con la sua azione di governo erede della
tradizione intransigente ottocentesca – che prospetta una presenza direttiva della Chiesa su aspetti
della vita collettiva che gli uomini si sentono invece in grado di autodeterminare – Ratzinger ha
accentuato le contraddizioni tra la comunità ecclesiale e la società. E le varie fazioni presenti in
Curia hanno potuto far leva su questo aspetto per "ideologizzare", e dunque massimizzare, le loro
istanze di potere, irrigidendo i conflitti, probabilmente fino ad un punto di non ritorno.
Nel tempo si è assistito ad una progressiva sacralizzazione del pontificato e dei pontefici: basti
pensare al fatto che, in particolare durante i regni di Pio XII e Giovanni Paolo II, i papi hanno
proceduto alla canonizzazione dei loro predecessori, quasi a voler santificare il ministero
petrino e, di conseguenza, chi quel ministero ricopre ed esercita. Le dimissioni di Ratzinger
potrebbero contribuire a interrompere questa tendenza?
Da un certo punto di vista la rinuncia rappresenta una normalizzazione del papato. I vescovi, a 75
anni, sono tenuti a rassegnare le dimissioni. Il papa è il vescovo di Roma. Pur con il privilegio di
decidere da sé il momento in cui abbandonare il ministero, senza dovere quindi sottostare alle
norme canoniche, anche il vescovo di Roma si allinea alla normativa prevista per l’episcopato
universale, secondo cui ad un certo punto della vita occorre abbandonare le funzioni svolte.
Naturalmente questo atto non vincola i successori, che saranno liberi di adeguarsi o meno al
precedente. Ma tra la rinuncia al governo della Chiesa universale, anche se dovesse diventare prassi
futura del papato, e la desacralizzazione della figura del papa, che è stata profondamente introiettata
nella mentalità cattolica durante gli ultimi due secoli, passa un abisso.
La sacralizzazione è ormai un dato immodificabile?
Immodificabile no, ma sicuramente non sono sufficienti le dimissioni di un papa ad interrompere ed
infrangere questa tendenza. Il papa, nei primi secoli cristiani, era definito «successore di Pietro»,
poi è diventato «vicario di Cristo» e infine, con una forte insistenza su questo punto nell’età della
secolarizzazione, «vicario di Dio». Si tratta di un meccanismo in atto da secoli, fortemente radicato
nella mentalità cattolica, che difficilmente può essere smontato dalle dimissioni di un pontefice. Mi
pare che occorra un tempo lungo e ulteriori gesti per desacralizzare la figura papale.
Ma le dimissioni di Ratzinger sono davvero un evento rivoluzionario?
L’atto è senza dubbio inusuale rispetto ai collaudati meccanismi dell’istituzione ecclesiastica ed è
reso ancora più clamoroso dalla differenza con la scelta di Giovanni Paolo II di rendere la sua
malattia e la sua morte testimonianza del modello di vita cristiana da lui giudicato esemplare.
Al punto da far dimenticare tutta l'azione di governo di Ratzinger – per non parlare del
ventennio abbondante in cui è stato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede –
fortemente restauratrice, trasformandolo in un papa riformatore?
In questi giorni si è scatenata una massiccia apologetica, probabilmente motivata anche dall’intento
di far dimenticare le concrete sconfitte che la linea di governo di Benedetto XVI ha incontrato nel
misurarsi con quasi tutti i nodi della attuale situazione ecclesiale. Ma che la rinuncia al pontificato
rappresenti un evento "rivoluzionario" potremo saperlo sono nei prossimi mesi, e forse già l’esito
del Conclave ci aiuterà a capirlo.
E se le dimissioni, preso atto dell’incapacità di governare la Chiesa, non siano solo un modo
per orientare in maniera decisiva il Conclave nella scelta del suo successore?
Un po’ come gli imperatori romani che indicavano il loro “delfino” quando erano ancora in vita...
Dai discorsi che Benedetto XVI ha fatto dall’annuncio delle dimissioni fino all’inizio della "sede
vacante" in effetti è possibile tracciare l’identikit del suo successore così come Ratzinger lo
vorrebbe: relativamente giovane, dotato di energia, severità e capacità di governo per realizzare
quello che da parte sua non è riuscito a fare. Ed è inevitabile, nonostante le scontate dichiarazioni di
non intromissione ed interferenza, che Ratzinger influirà su Conclave: ogni suo atto, ogni sua
parola, ogni suo gesto hanno avuto ed avranno un peso. Anche la tempistica mi sembra per certi
aspetti studiata: costringere i cardinali ad agire in fretta, perché è difficile arrivare a Pasqua senza
che ci sia già il nuovo papa.
Nel Conclave esiste un "fronte progressista?"
Non credo. Ma se c’è, è debolissimo, perché si tratta di un Conclave interamente nominato, e
"blindato", da Wojtyla e da Ratzinger.
Quindi arriverà un nuovo papa conservatore?
Dipenderà dai cardinali riuniti in Conclave: se qualcuno avrà il coraggio di presentare le difficoltà
che la riproposizione di una linea neo-intransigente ha incontrato, allora i giochi potrebbero
riaprirsi. Credo che se nel Conclave si avvierà una discussione vera sul ruolo della Chiesa nella
società contemporanea a partire dalla costatazione dei fallimenti del progetto di neo-cristianità
avanzato negli ultimi due decenni, allora potrà aprirsi qualche spiraglio e verificarsi qualche
sorpresa.